giovedì 25 novembre 2010

Fernando Pessoa - Parte Seconda


La comparsa degli eteronimi maggiori

Il 1914 non è solo l’anno di “Pioggia Obliqua”. È l’anno della comparsa dei suoi tre eternomini maggiori: Alberto Caeiro, Ricardo Reis e Alvaro de Campos. Pessoa parla di un evento straordinario, avvenuto in un solo pomeriggio, dove queste tre personalità distinte si sarebbero rivelate in lui provocando un impulso frenetico alla scrittura in tre differenti stili. Tuttavia questo fatto non è provato, ed anzi esistono molte discordanze sulle date di questo giorno fatidico ma soprattutto sulla nascita simultanea dei tre eteronimi maggiori. Egli stesso ammette di averli presagiti tempo prima sotto forme vaghe e differenti, e che solo nel 1914 si siano manifestati in maniera coincisa e chiara, tanto da poterli descrivere dettagliatamente uno ad uno:

« Un giorno in cui avevo definitivamente rinunciato — era l'8 marzo 1914 — mi sono avvicinato da un alto comò e, prendendo un foglio di carta, mi sono messo a scrivere, all'impiedi, come faccio ogni volta che posso. E ho scritto circa trenta poesie di seguito, in una specie di estasi di cui non riesco a capire il senso. Fu il giorno trionfale della mia vita e non potrò mai averne un altro come quello. Cominciai con un titolo: O Guardador de Rebanhos (Il Guardiano di greggi). E quello che seguì fu la nascita in me di qualcuno a cui diedi subito il nome di Alberto Caeiro. Scusate l'assurdità di questa frase: il mio maestro era sorto in me ».

Dunque il 1914 è l’anno del giorno “ trionfale”. Pessoa conosce il suo Maestro, Alberto Caeiro, il neoclassicista Ricardo Reis e lo stravagante dandy Alvaro de Campos.

Alberto Caeiro

Il primo, quello che Pessoa definisce appunto il suo Maestro, è Alberto Caeiro. Nasce a Lisbona nel 16 aprile 1889 e muore nel 1915. Vive nel complesso una vita da contadino, a contatto con la natura, nella campagna circostante dove si trasferisce già da bambino dopo la morte dei suoi genitori. Segue gli studi solo fino alla quinta elementare, ed è quindi noto come un poeta-filosofo autodidatta. Tuttavia Caeiro è insofferente a questo appellativo: la sua poesia, la sua filosofia è in verità una non-filosofia. Egli è convinto che la semplicità dell’essere debba essere osservata direttamente, senza il pensiero e senza il linguaggio, ritenuti dal poeta mezzi inadatti all’osservazione del reale. Il suo linguaggio, seppure semplice, propone riflessioni profonde alla ricerca della Realtà. A questo scopo per Caeiro tutta la metafisica è un errore. Tutto il linguaggio atto alla metafisica è menzogna. La realtà non nasconde nulla, non contiene significati simbolici. Servono invece occhi lontani dal pensiero per riuscire a cogliere l’essere delle cose, la loro essenza diretta e disarmante negli sguardi di tutti gli intellettuali dediti al pensiero e al raziocinio. Difatti è pur vero che l’uomo, lontano dalla realtà oggettiva, è portato a inventare attraverso il suo linguaggio una realtà da lui indagabile, conoscibile, e mentre questo tentativo segna il fallimento del linguaggio umano nei confronti del reale, questi compromessi della ragione altro non possono rappresentare che il vero e proprio fallimento della metafisica.

« Sono un guardiano di greggi.
Il gregge è i miei pensieri.
E i miei pensieri sono tutti sensazioni.
Penso con gli occhi e con gli orecchi
e con le mani e i piedi
e con il naso e la bocca.
Pensare un fiore è vederlo e odorarlo
e mangiare un frutto è saperne il senso.
Perciò quando in un giorno di calura
sento la tristezza di goderlo tanto,
e mi corico tra l'erba
chiudendo gli occhi accaldati,
sento tutto il mio corpo immerso nella realtà,
so la verità e sono felice. »


Alberto Caeiro, Il Guardiano di greggi.

La relativa semplicità di linguaggio del poeta nasconde una non-filosofia complessa e articolata: Ricardo Reis parla di un “neopaganesimo” inteso come abbandono da parte della gente della fede religiosa e dei suoi principi in direzione di nuove fonti pseudo religiose che esaltino maggiormente i valori ultraterreni (rifacendosi al mondo pagano). Il Maestro di questo movimento eletto è appunto Alberto Caeiro, ed i suoi discepoli sono molto altri eteronimi tra cui lo stesso Ricardo Reis, Alvaro De Campos e Pessoa stesso. L’opera di Caeiro può essere quindi interpretata come la ricostruzione integrale del paganesimo, così come nè i greci nè i romani poterono concepirlo. Viene vissuto in modo più profondo del semplice trasporto del sentimento o dell’utilizzo della ragione. La sua poetica si muove attraverso un progresso di sensazioni accompagnato da un intuizione sovraumana come quelle che fondano religioni o culti eterni: senza però avere nulla di religioso, nulla di metafisico. Caeiro ha scoperto il mondo senza rifletterci sopra, egli rappresenta il “Rivelatore della realtà”, “l’Argonauta delle sensazioni vere”.

«signor Caeiro, lei è un materialista? »

«no, non sono materialista, ne deista, ne niente. Sono un uomo che un giorno, aprendo la finestra, ha scoperto questa cosa importantissima: che la Natura esiste. »

Ricardo Reis

« [...]Verso il 1912 , salvo errori (i quali, comunque, sarebbero minimi) mi venne l’idea di scrivere qualche poesia di indole pagana. Abbozzai qualcosa in versi irregolari (non nello stile di Alvaro de Campos, ma in uno stile di regolarità media), e lasciai perdere. Si era abbozzato in me, tuttavia, in una non tanto chiara penombra, un vago ritratto di colui che stava scrivendo quei versi. ( Era nato, senza che io lo sapessi, Ricardo Reis) [...].»

Ricardo Reis, nato il 19 settembre 1887 e morto il 30 novembre 1935 (anno della morte di Pessoa) è un medico che dopo la caduta della monarchia in Portogallo, avvenuta nel 1912, si autoesilia in Brasile. Latinista per educazione ricevuta e semi ellenista autodidatta, Reis è l’eteronimo maggiore che rielabora in modo razionale la corrente neoclassica alla quale si è fortemente ispirato.

Frederigo Reis, parente di Ricardo e semieteronimo pessoano, spiega in una nota la corrente filosofica del cugino, vicina ad Epicuro. Quest’ultimo, come risaputo, negava l’intervento divino nelle questioni umane e affermava l’eternità della materia dotata di una fonte interna che darebbe movimento a tutto. Epicuro è anche un sensualista che crede nelle sensazioni: gli errori quindi deriverebbero da una loro cattiva interpretazione. La conoscenza ha un unico scopo per gli epicureisti: liberare l’uomo dalla superstizione, dalla paura degli dei e dalla morte. Anche per questo, l’uomo, dovrebbe avere un ideale individualista che tenda ad evitare le sofferenze. Su queste basi concettuali, riassunte e rielaborate, Ricardo Reis propone un neo-classicismo “scientifico” come reazione a due correnti del suo tempo: il romanticismo moderno e il neoclassicismo alla Maurras. Lo stesso Frederigo parlerà della filosofia del poeta come di un “epicureismo triste”, una solitudine votata alla ricerca della calma, della tranquillità, ben lontana da attività inutili e faticose. Tuttavia questa condotta è solo temporanea secondo Reis, la sua durata riguarda solo il periodo di dominazione dei barbari (dei cristiani, quindi). Dunque un’ulteriore astuzia è necessaria, l’illusione. Illusione della calma, della libertà, della felicità. Concetti che lo stesso poeta credeva inattingibili poichè: gli stessi dei non hanno libertà, sono anch’essi asoggettati al Fato; inoltre può essere forse felice colui che risulta esiliato dalla sua fede e dall’ambiente in cui la sua anima dovrebbe vivere? Quanto alla calma, chi vive nell’angustia complessa dei nostri giorni, chi vive sembre in attesa della morte, difficilmente può fingersi calmo.

« Come scrivo nel nome di questi tre (eteronimi maggiori)? [...] (quanto a Ricardo Reis scrivo) dopo una astratta deliberazione, che subito si concretizza in un ode».

«Pongo nella superba mente lo sforzo fisso

dell’altezza, e alla sorte lascio,

e alle sue leggi, il verso;

ché, quando è alto e regale il pensiero

suddita la frase lo cerca

e lo schiavo ritmo lo serve. »

« Così presto passa,

tutto quanto passa!

Muore

così giovane davanti agli dèi tutto quanto

muore!

Tutto è così poco!

Niente si sa,

tutto si immagina.

Circondati di rose,

ama, bevi, e taci.

Il resto è niente. »

«Per essere grande, sii intero: non eccedere o non

escludere niente di te.

Sii tutto in ogni cosa. Poni quanto sei

nel minmo che fai.

Così in ogni lago la luna intera brilla,

perchè alta vive. »

Ricardo Reis, Odi.

Alvaro de Campos

Stravagante. Smisurato. Contraddittorio. Alvaro de Campos è sicuramente l’eteronimo maggiore più vicino al Pessoa ortonimo. Non a caso sarà l’unico eteronimo con il quale Pessoa intratterà frequenti rapporti personali, tanto da risultare una figura poco amabile nei confronti della fidanzata del poeta, Ofelia Quieroz, nel 1920 e nel 1929.

Campos tende sempre all’azione, spesso sognata. Non era affatto un contemplativo.

Con le sue pubblicazioni creava spesso scandali (“ode trionfale”, “ode marittima” pubblicate su “Orpheu” nel 1915; “Ultimatum” pubblicato nel 1917).

Anche le poche informazioni che abbiamo su di lui sono di carattere contraddittorio: due lettere distinte che trattano la sua persona indicano due luoghi di nascita differenti, Tavira e Lisbona.

Tale contraddittorietà sarà una caratteristica contraddistintiva del suo stile, il più indisciplinato fra i tre eteronimi maggiori, dal punto di vista letterario. Comporrà “Oppiario”, una poesia in stile decadente datata come precedente a “Ode Marittima” ma composta in verità dopo questa; tale arteficio è dovuto ad una richiesta di un suo caro amico poeta, Mario de Sa-Carneiro, che gli propose di scrivere una poesia nello stile precedente all’influenza ricevuta dal suo maestro Alberto Caeiro dal 1914 in poi. Dunque “Oppiario” è una poesia complessa dal punto di vista della sua composizione giacchè Fernando Pessoa ha dovuto attuare ben due spersonalizzazioni per comporla: una prima da Fernando Pessoa ortonimo ad Alvaro de Campos, ed una seconda dall’ Alvaro de Campos influenzato dal suo maestro Alberto Caeiro a quello precedente a tale influenza.

Tuttavia il Campos più conosciuto e realizzato lo possiamo conoscere in un’altra evoluzione letteraria, che molti critici hanno indicato nel suo cammino: tre fasi, o meglio, tre sfaccettature possono essere individuate nel pensiero del poeta: una prima è impermeata dell’estetica decadentista, proprio quella di “Oppiario”, una seconda può essere definita sensazionista-futurista, ed è la fase di “Ode Marittima” ed “ Ode Trionfale”, infine una terza detta anche fase Personale, e include opere come “Tabaccheria” e “Lisbon Revisited”.

L’opera più incisiva di Alvaro de Campos, capace di riassumere il suo percorso letterario ed esistenziale è probabilmente “Tabaccaria”. A parlare è un campos stanco, passivo, angosciato, che caratterizza caratterizza la fase “personale” del poeta. Scritta il 15 gennaio 1928, è composta da 167 versi irregolari senza rima, sudduvisi da una breve introduzione, un corpo centrale e una conclusione.


«Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo.
»

La breve introduzione descrive la dimensione esistenziale del poeta, dimensione vissuta attraverso l’opposizione tra essere (nulla) e sogno. Il corpo della poesia riprende esattamente queste due dimensioni figurandole come spazio interno (di una stanza dove si trova il poeta) e spazio esterno (la finestra che dà sulla strada). Le opposizioni e le contraddizioni si sviluppano attraverso questi spazi, il fuori (reale, oggettivo) ed il dentro (dimensione onirica, soggettiva) :


«Finestre della mia stanza,
[...]
vi affacciate sul mistero di una via costantemente attraversata da gente,
su una via inaccessibile a tutti i pensieri,
reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa,
con il mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri [...].
»

Seguono vari momenti di smembramento che stanno a significare la distruzione dell’io poetico e la sua disgiunzione riguardo i due spazi, interno-esterno, e la dimensione della realtà e del sogno.


«Oggi sono sconfitto, come se conoscessi la verità.
Oggi sono lucido, come se stessi per morire,
e non avessi altra fratellanza con le cose
che un commiato [...].

Oggi sono perplesso come chi ha pensato, trovato e dimenticato.
Oggi sono diviso tra la lealtà che devo
alla Tabaccheria dall'altra parte della strada, come cosa reale dal di fuori,
e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.

Sono fallito in tutto.
Ma visto che non avevo nessun proposito, forse tutto è stato niente. [...]


Mi scosto dalla finestra, siedo su una poltrona. A che devo pensare?
Che so di cosa sarò, io che non so cosa sono?
Essere quel che penso? Ma penso di essere tante cose!
[...]
Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
e non di chi sogna di poterlo conquistare, anche se ha ragione.

Ho sognato di più di quanto Napoleone abbia realizzato.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo.
Ho creato in segreto filosofie che nessun Kant ha scritto.
Ma sono, e forse sarò sempre, quello della mansarda,
anche se non ci abito;
sarò sempre quello che non è nato per questo;
sarò sempre soltanto quello che possedeva delle qualità;
sarò sempre quello che ha atteso che gli aprissero la porta davanti a una parete senza porta,
e ha cantato la canzone dell'Infinito in un pollaio,
e sentito la voce di Dio in un pozzo chiuso.
Credere in me? No, nè in niente.

[...]
Schiavi cardiaci delle stelle,
abbiamo conquistato tutto il mondo prima di alzarci dal letto;
ma ci siamo svegliati ed esso è opaco,
ci siamo alzati ed esso è estraneo,
siamo usciti di casa ed esso è la terra intera,
più il sistema solare, la Via Lattea e l'Indefinito.
»

Le due dimensioni si alternano in un gioco di scene traverse, elementi caotici che prendono forma in questa e quella dimensione sotto il rigido smembramento poetico e il forte sentimento di stasi che porta il poeta a non appartenere definitivamente nè alla dimensione del Reale nè a quella del Sogno.

« (Mangia cioccolatini, piccina; mangia cioccolatini!
Guarda che non c'è al mondo altra metafisica che i cioccolatini.
[...]

Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con assoluta nitidezza.
Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le vetture passare,
vedo gli esseri vivi vestiti che s'incrociano,
vedo i cani che anche loro esistono,
e tutto questo mi pesa come una condanna all'esilio,
e tutto questo è straniero, come ogni cosa.
Ho vissuto, studiato, amato, e persino creduto,
e oggi non c'è mendicante che io non invidi solo perché non è me.
Di ciascuno guardo i cenci e le piaghe e la menzogna,
e penso: magari non ho mai vissuto, nè studiato, nè amato, nè creduto
(perché si può creare la realtà di tutto questo senza fare nulla di tutto questo);
magari sei solo esistito, come una lucertola cui tagliano la coda
e che è irrequietamente coda al di qua della lucertola.

[...]
Essenza musicale dei miei versi inutili,
magari potessi incontrarmi come una cosa fatta da me,
e non stessi sempre di fronte alla Tabaccheria qui di fronte,
calpestando la coscienza di esistere,
come un tappeto in cui un ubriaco inciampa
o uno stoino rubato dagli zingari che non valeva niente.
[...]»

Infine il reale torna ad impossessarsi dell’esistenza del poeta e segue la conclusione della poesia come un ritorno all’oggettività esterna. Il reale oggettivo è appunto rappresentato dall’esterno, dall’immagine della tabaccheria di fronte, mentre il quadro soggettivo è la sensazione mentale del poeta, sensazione espressa attraverso un sogno che Campos crede reale là dove nasce, dentro di sè (A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo.) Il reale oggettivo è ciò che nel poeta crea dubbio e perplessità, lasciandolo in sospeso nella sua stasi esistenziale. Nella conclusione segue l’anti-climax che è rappresentato dal tentativo da parte dell’io poetico di identificarsi con il reale oggetivo. Ne nascerà un fallimento che metterà in rilievo l’incapacità di agire per la macanza di energia interiore. Da questo fallimento esistenziale si sviluppa un’amarezza per la mancata concretizzazione dell’infinito sognato.



«Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?),
e la realtà plausibile improvvisamente mi crolla addosso.

Poi mi allungo sulla sedia
e continuo a fumare.
Finche il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.
(Se sposassi la figlia della mia lavandaia
magari sarei felice.)
Considerato questo, mi alzo dalla sedia.
Vado alla finestra.
L'uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilando il resto nella tasca dei pantaloni?).
Ah, lo conosco: è Esteves senza metafisica.
(Il padrone della Tabaccheria s'è affacciato all'entrata.)
Come per un istinto divino Esteves s'è voltato e mi ha visto.
Mi ha salutato con un cenno, gli ho gridato Arrivederci Esteves!, e l'universo
mi si è ricostruito senza ideale ne speranza, e il padrone della Tabaccheria ha sorriso.
»

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